Non è sempre e solo una questione di botte. La violenza contro le donne ha varie facce. Tutte terribili. Una tra queste è quella economica
Si chiamavano Alessandra, Alice, Ana Maria, Elvira, Loredana, Nicoletta e Rosalia. Sono le sette donne uccise in Sicilia nel 2019. Finora. Uccise dai loro compagni, fidanzati, mariti, per intenderci. L’anno scorso, secondo l’ultimo Rapporto Eures 2019, invece di donne ne sono state ammazzate dieci. Sei solo a Catania, un triste primato regionale che porta la città a scalare il quinto posto nazionale. Come se non bastasse, l’isola è la prima nel Paese per denunce di stalking (35 ogni 100mila abitanti) e maltrattamenti in famiglia (37 ogni 100mila abitanti). Ma non è sempre e solo una questione di botte.
La violenza contro le donne ha varie facce. Tutte terribili. Una tra queste è quella economica. Più sottile da definire, più subdola da stanare eppure sempre più diffusa. Alle mogli, madri, compagne, fidanzate si impedisce di conoscere il reddito familiare, di avere una carta di credito o un bancomat, di usare il proprio denaro. Si controllano loro le spese, anche. Poi c’è perfino chi nega il diritto al lavoro. Una condizione che, in una regione ultima in Europa per tasso di occupazione femminile (secondo l’ultima indagine Svimez), pesa ancora di più. Le donne siciliane che ogni giorno vanno a lavorare sono il 29 per cento. In Europa il tasso d’occupazione è del 63. Cifre disarmanti. Ancor peggio va alle giovani: trovare lavoro è difficile e quando succede si tratta di un part time, tanto che il tempo parziale involontario negli ultimi dieci anni è aumentato di oltre il 97 per cento. Come a dire, la crisi economica non aiuta il genere femminile. Men che meno le donne vittime di violenza. Soprattutto in Sicilia.
Non è dunque solo questione di rapporto uomo-donna in tema di opportunità, istruzione, lavoro, vita sociale. Le donne sono più degli uomini, studiano di più e spesso hanno risultati scolastici migliori ma lavorano di meno, guadagnano di meno e, soprattutto, sono meno valorizzate sul posto di lavoro. Il divario corre anche lungo l’asse Nord-Sud del Paese. Le donne meridionali rimangono ancora, in gran parte, prigioniere degli stereotipi e di iniziative e servizi che non sono sufficienti per favorire la conciliazione dei tempi di vita e di lavoro (nel Mezzogiorno solo un terzo dei Comuni offre degli asili nido che coprono appena il 5,4 per cento dei bambini con età inferiore ai tre anni, a fronte del 17 delle regioni del Centro-Nord). Lavorare e formarsi una famiglia, per molte, rimangono due rette parallele. Uscire, poi, da un nucleo familiare prepotente, avendo sacrificato la professione, diventa ancora più complicato. E così la violenza economica, riconosciuta dalla Convenzione di Istanbul, a Sud passa in secondo piano.
Uno studio nell’ambito del progetto europeo WE GO (Women Economic Indipendence & Growth Opportuniy) spiega bene come l’assenza di risorse economiche personali impedisca alle donne vittime di violenza di genere di abbandonare il tetto familiare. Il fenomeno è allarmante: il 53 per cento delle intervistate, oltre una su due, dichiara di aver subito qualche tipo di violenza economica. Questa settimana saranno tante le iniziative contro il femminicidio. La Regione ha lanciato l’hastag #tunonseisola e un QR Code che rimanda a una pagina web dove sono presenti tutti i centri antiviolenza in Sicilia. Bene, ma non basta. Alle donne siciliane tutte, e alle vittime di genere soprattutto, occorre un lavoro. La scarsa partecipazione femminile è legata in buona parte all’incapacità delle politiche di welfare. Insomma, si è innescato un circolo vizioso che, nei casi di violenza di genere, chiama in causa le istituzioni. Alle donne vittime di violenza economica (attuali e future) basterebbe un contratto regolare a tempo pieno. Possibilmente senza necessità di firmare una lettera di dimissioni anticipate, causa futura gravidanza (andate a farvi un giro, ad esempio, nei centri commerciali).
Ai prossimi convegni per la Giornata internazionale contro la violenza sulle donne facciamolo presente. Non solo ai politici ma anche ai datori di lavoro. Frattanto c’è Mia Economia, lo sportello della Fondazione Pangea Onlus che aiuta le donne che vivono o hanno vissuto una condizione di violenza economica.